All’interno di un rapporto ritrovato, il cibo diventa veicolo di riscoperta del mondo, pieno di calore e vitalità, percepito come generoso e protettivo, ma così spesso tradito: “Il mondo ci ha sempre dato tutto. È stato la nostra casa, è stato il nostro piatto, la nostra porzione, la nostra vita. Il mondo era per noi, lo è ancora, ma il mondo vive. Respira. E come tutto ciò che respira, un giorno smetterà di farlo. Smetterà di essere la nostra casa, il nostro piatto, la nostra porzione e la nostra vita. Smetterà di darci tutto. E forse, ci verrà anche contro. Forse, sta già iniziando a farlo. Perché il mondo parla, ma non siamo capaci di ascoltarlo. O meglio, non vogliamo farlo”.
Sospeso tra riflessione e autobiografia, “Mangiare è vita” è un invito toccante e ispirato a rinnovare la comunione degli uomini con il mondo, inteso come nutrimento e fonte di vita.
Ovviamente sono fiero di questo risultato, e spero che possa aiutare la mia dolce nipote ad aver maggior fiducia nel suo potenziale. Ma bando alle ciance ed eccovi il racconto di Eleonora:
MANGIARE E’ VITA
<< Mangiare. >> mi scruta, con i suoi piccoli occhi nascosti dalla montatura nera degli occhiali. << Secondo te, cosa rappresenta mangiare? >>. Lo guardo in silenzio, i miei occhi slittano veloci su e giù, verso la scrivania in legno e il suo sguardo sempre fisso su di me, ogni volta mi da’ la sensazione che studi i miei movimenti e questo mi agita; a tal motivo mi torturo le mani cercando di trovare una risposta corretta, riformulando più volte nella mia mente quel quesito.
È sempre così.
Mi soffermo a pensare a qualcosa di ovvio per il semplice motivo che non vivo senza farlo, per il solo scopo che non potrei accettare di sbagliare, allora, a causa di quel silenzio, che poco a poco prendeva una piega di tensione, i suoi occhi si fecero più grandi mentre mi osservava:
<< Devi solo dirmi il tuo pensiero, non ci sono risposte giuste o sbagliate. >>
<< Beh, senza mangiare… non potrei sopravvivere. >> dico a voce bassa, alzando lo sguardo verso quel signore che occupava il posto davanti al mio; solo quella scrivania ci divideva.
<< Esatto! >>, l’enfasi nella sua voce fece raddrizzare la mia schiena, << Perché mangiare è vita. Una persona che non vuole mangiare di conseguenza rifiuta la vita. >>.
Rifiutare la vita? Non ho mai pensato di farlo. O meglio, non più. Eppure, dopo quella conversazione di quarantacinque minuti, sono poche le altre parole che ci scambiammo e il discorso era terminato, come molti altri.
Lui è il mio psicologo.
La strada davanti a me è grigia mentre cammino per i sentieri della mia città, con la testa bassa e con gli occhi scuri rapiti in un punto, a me indefinito, del cemento. Il freddo fece tremare le mie ossa, ma incurante di ciò decisi comunque di non chiudere il giubbotto, con la ragione ancora lì, chiusa in quella camera e con quelle parole, con quel discorso cantato a metà lasciatolo mescolarsi nell’aria; io immaginavo che quel gelo che penetrava la mia pelle fossero quelle parole. È sempre così. Ogni volta che lascio quella stanza la mia mente danza e questo starebbe a significare che tutti i Mercoledì della mia vita, da quando avevo quindici anni, sono pieni di me. Solitamente, le mie giornate si saziano di ogni cosa, ma mai di me. E come sensazione, non c’è stato attimo in cui mi sia piaciuta. Ma ormai sono passati due anni da quando incontrai il mio dottore per la prima volta, se non di più, e nonostante fatichi a farmela piacere, questa sensazione, sto imparando a farmela andare bene. Sto imparando ad accettarla. Mi fermo al semaforo che da l’incrocio, guardo le strisce bianche per terra mentre la mia mente non è ancora presente: vedo una strada, ma non so più cosa sia. Non so più niente, laddove il fastidioso odore dello scarico di un’automobile mi pizzica le narici. << Che schifo… >> sussurro, incapace di sentire la mia voce attraverso gli auricolari e la musica ad alto volume. Finalmente, il verde scatta riflesso nelle mie iridi e io posso continuare a camminare, a camminare come sempre, con il mio caratteristico passo pesante che appare voler marcare il proprio passaggio sul suolo; e intanto supero le strisce bianche, oltrepasso le persone, valico anche me stessa, che ancora una volta, sono rimasta indietro. Come sempre. “Destra o sinistra?”, mi chiedo, guardando per la prima volta davvero davanti a me. Alla fine, senza pensarci molto, prendo la strada più lunga: quella a sinistra, e continuo la mia passeggiata ricca di domande, piena di risposte, tutto ciò che possa girare intorno alla mia persona. E senza rendermene conto ho finito per andare a caso tra le vie, nella mia vita, dentro di me e mi ritrovai lì, in un luogo che è passato ma sento ancora nel presente. Forse oggi lo percepisco anche più di prima. I cancelli arrugginiti si mostravano ampi di fronte a me, di fronte a chiunque, di fronte anche a tutte quelle mamme che aspettavano il suono della campanella per poter portare a casa i loro bambini. Quella era la mia scuola elementare.
Le voci, le risate, gli urletti acuti di tutti quei bambini che uscivano inizialmente composti, per poi spargersi in un mondo di gente, riuscivano perfettamente ad oltrepassare le onde sonore della mia musica; così, decisi di conservarla per un altro momento e liberai i miei timpani dagli auricolari.
Lui è il mio psicologo.
La strada davanti a me è grigia mentre cammino per i sentieri della mia città, con la testa bassa e con gli occhi scuri rapiti in un punto, a me indefinito, del cemento. Il freddo fece tremare le mie ossa, ma incurante di ciò decisi comunque di non chiudere il giubbotto, con la ragione ancora lì, chiusa in quella camera e con quelle parole, con quel discorso cantato a metà lasciatolo mescolarsi nell’aria; io immaginavo che quel gelo che penetrava la mia pelle fossero quelle parole. È sempre così. Ogni volta che lascio quella stanza la mia mente danza e questo starebbe a significare che tutti i Mercoledì della mia vita, da quando avevo quindici anni, sono pieni di me. Solitamente, le mie giornate si saziano di ogni cosa, ma mai di me. E come sensazione, non c’è stato attimo in cui mi sia piaciuta. Ma ormai sono passati due anni da quando incontrai il mio dottore per la prima volta, se non di più, e nonostante fatichi a farmela piacere, questa sensazione, sto imparando a farmela andare bene. Sto imparando ad accettarla. Mi fermo al semaforo che da l’incrocio, guardo le strisce bianche per terra mentre la mia mente non è ancora presente: vedo una strada, ma non so più cosa sia. Non so più niente, laddove il fastidioso odore dello scarico di un’automobile mi pizzica le narici. << Che schifo… >> sussurro, incapace di sentire la mia voce attraverso gli auricolari e la musica ad alto volume. Finalmente, il verde scatta riflesso nelle mie iridi e io posso continuare a camminare, a camminare come sempre, con il mio caratteristico passo pesante che appare voler marcare il proprio passaggio sul suolo; e intanto supero le strisce bianche, oltrepasso le persone, valico anche me stessa, che ancora una volta, sono rimasta indietro. Come sempre. “Destra o sinistra?”, mi chiedo, guardando per la prima volta davvero davanti a me. Alla fine, senza pensarci molto, prendo la strada più lunga: quella a sinistra, e continuo la mia passeggiata ricca di domande, piena di risposte, tutto ciò che possa girare intorno alla mia persona. E senza rendermene conto ho finito per andare a caso tra le vie, nella mia vita, dentro di me e mi ritrovai lì, in un luogo che è passato ma sento ancora nel presente. Forse oggi lo percepisco anche più di prima. I cancelli arrugginiti si mostravano ampi di fronte a me, di fronte a chiunque, di fronte anche a tutte quelle mamme che aspettavano il suono della campanella per poter portare a casa i loro bambini. Quella era la mia scuola elementare.
Le voci, le risate, gli urletti acuti di tutti quei bambini che uscivano inizialmente composti, per poi spargersi in un mondo di gente, riuscivano perfettamente ad oltrepassare le onde sonore della mia musica; così, decisi di conservarla per un altro momento e liberai i miei timpani dagli auricolari.
<< Mamma, cosa c’è oggi per merenda? >> aveva detto una bambina. Merenda. È da tanto tempo che non uso più questa parola ed è da altrettanto tempo che non è più mia abitudine farla. Velocemente, quella piccola piazzetta tornò vuota, solo poche persone la attraversavano e io rimasi sola, e ancora sola voltai i miei piedi nella direzione opposta: dovevo tornare a casa. Ci vogliono quindici minuti dalla mia scuola elementare a casa mia. Una volta, quando ero più piccola, avevo anche contato quanti passi ci volessero, quattrocento? O forse un po’ di più? Sinceramente non lo ricordo; e mentre andavo avanti per quella strada asfaltata, mentre stavo per entrare nel parco che mi avrebbe portata più vicina alla stazione, il profumo di focaccia che usciva da una panetteria invase i miei sensi portandomi a fermare. Il mio sguardo si piazzò sulla vetrina che mostrava dolci e salati, di tanti tipi. Avevo fame. Forse, tutto quel parlare di cibo, mi fece tornare l’appetito? Poteva essere benissimo così, ma mi tratteni dall’entrare; papà diceva sempre che sarebbe meglio qualcosa di più salutare. Così, ho soppresso il mio istinto dov’era nato.
Sono tornata a casa.
Sola. Anche in quel momento mi trovavo sola. Mamma, è andata via, forse per qualche commissione. Papà, è a lavoro. Mio fratello, all’università. Quindi sono sola. Ma a me piace stare sola. Credo.
Prendo la macedonia in frigorifero e mentre mi metto a sedere sul divano accendo la televisione senza prestarci attenzione, in realtà. Guardo le fragole, il loro succo rosso lasciato sul fondo, le mele tagliate a cubetti e le banane, tutte mischiate insieme, nascoste l’una sopra l’altra; guardo, guardo ogni cosa, cerco il dettaglio, cerco il diverso, cerco l’imperfezione in qualcosa di perfetto, quel qualcosa che forse, non è poi così perfetto. Nato nella perfezione, un giorno. Cresciuto imperfetto, oggi. Guardo qualcosa che, con il tempo è cambiato e mentre sono ancora lì, con gli occhi fissi su quel qualcosa, istintivamente sorrido. Ma non saprei spiegare che genere di sorriso fosse. Io, pensavo alla perfezione, alla perfezione di un frutto, alla perfezione di qualcosa che è natura, io, proprio io che sempre la rinnegavo, rinnegavo il solo pensiero di renderla reale. Eppure, guardando quei frutti, potevo solo vederli perfetti nonostante tutto, pensando alle origini, pensando all’inizio, pensando a come è diventato vita e solo allora ho messo luce sul fatto che la natura è perfezione, è qualcosa che non si può raggiungere, non si può superare, proprio come quel frutto che mi permette di vivere.
Sono tornata a casa.
Sola. Anche in quel momento mi trovavo sola. Mamma, è andata via, forse per qualche commissione. Papà, è a lavoro. Mio fratello, all’università. Quindi sono sola. Ma a me piace stare sola. Credo.
Prendo la macedonia in frigorifero e mentre mi metto a sedere sul divano accendo la televisione senza prestarci attenzione, in realtà. Guardo le fragole, il loro succo rosso lasciato sul fondo, le mele tagliate a cubetti e le banane, tutte mischiate insieme, nascoste l’una sopra l’altra; guardo, guardo ogni cosa, cerco il dettaglio, cerco il diverso, cerco l’imperfezione in qualcosa di perfetto, quel qualcosa che forse, non è poi così perfetto. Nato nella perfezione, un giorno. Cresciuto imperfetto, oggi. Guardo qualcosa che, con il tempo è cambiato e mentre sono ancora lì, con gli occhi fissi su quel qualcosa, istintivamente sorrido. Ma non saprei spiegare che genere di sorriso fosse. Io, pensavo alla perfezione, alla perfezione di un frutto, alla perfezione di qualcosa che è natura, io, proprio io che sempre la rinnegavo, rinnegavo il solo pensiero di renderla reale. Eppure, guardando quei frutti, potevo solo vederli perfetti nonostante tutto, pensando alle origini, pensando all’inizio, pensando a come è diventato vita e solo allora ho messo luce sul fatto che la natura è perfezione, è qualcosa che non si può raggiungere, non si può superare, proprio come quel frutto che mi permette di vivere.
Schiudo le labbra portandomi alla bocca una cucchiaiata di macedonia, il freddo contatto del cibo sui denti, il sapore dolce che mi accarezza la lingua; è piacevole. Anche il modo in cui esso scivola giù per la mia gola, è piacevole. Lentamente porto cucchiaio dopo cucchiaio alla mia cavità orale, lo faccio piano, per assaporare, per sentire e mentre lo faccio, penso solo a quello, a quanto sia perfetto. E penso a quanto questa perfezione, sia stata ormai rovinata. Rovinata da noi. Il mondo ci ha sempre dato tutto. È stato la nostra casa, è stato il nostro piatto, la nostra porzione, la nostra vita. Il mondo era per noi, lo è ancora, ma il mondo vive. Respira. E come tutto ciò che respira, un giorno smetterà di farlo. Smetterà di essere la nostra casa, il nostro piatto, la nostra porzione e la nostra vita. Smetterà di darci tutto. E forse, ci verrà anche contro. Forse, sta già iniziando a farlo. Perché il mondo parla, ma non siamo capaci di ascoltarlo. O meglio, non vogliamo farlo. Lo lasciamo parlare, lo lasciamo andare, lo lasciamo morire, perché se un giorno l’uomo si accontentava di quel poco che aveva per sopravvivere, di quello che aveva perché gli bastava, perché lo faceva stare bene, lo faceva vivere; oggi, non ci si sa più accontentare. Oggi si deve sempre avere di più, e anche quando si avrà di più, quel più non basterà. Allora distruggiamo il mondo, lo sfruttiamo, sfruttiamo la sua vita che permette la nostra e alla fine, che cosa ci resterà? Il mondo non può più darci tutto. Non ne ha le forze. Non ne è capace. Alimenti che fanno male. Cibo sconsigliabile. Carne che sarebbe meglio non mangiare. Acqua. Anche lei può risultare difficile da trovare. E c’è gente che muore di fame, e c’è chi mangia ciò che non dovrebbe mangiare. E poi si sta male. Si rischia sempre di stare male e alla fine ci distruggiamo prima del mondo. Appoggio la ciotola ormai vuota sul tavolino, abbandono il cucchiaio dentro di essa e sospiro, portando una mano alla testa e l’altra sul telecomando al mio fianco.
Sono una persona che in parecchie circostanze ha detto di no al cibo, non per paura che facesse male, non perché non mi accontentassi della fortuna che ho, semplicemente dicevo di “no” e il mio stomaco, a causa delle mie opposizioni, si è un po’ ristretto oggi. Ma quando mangio mi sento bene. Sono felice. E mi piace farlo. Mi piace quello che provo mentre mangio, mi piace mangiare, anche qualcosa di semplice, qualcosa fatta al momento, la trovo buona, perché mi scalda all’interno. E ciò che per me è nutrimento, è mondo. Mi piace il mondo, mi piace ciò che ha da offrire, mi piace ciò che ha da dare, mi piace lui e mi piace la vita. La sua vita che ha permesso la mia, che ha permesso ogni singola esistenza presente su questo pianeta. Vorrei poter scaldare il mondo, come lui, ha sempre scaldato me.
Il mio psicologo mi aveva detto “Mangiare è vita. Una persona che non vuole mangiare, di conseguenza rifiuta la vita.” Ha senso. Ha logica. Ci credo. Ma se un giorno dovesse proprio la vita rifiutarsi? Se un giorno proprio questo mondo senza forze dovesse dire “no”? Tutti gli sforzi fatti per non accontentarsi dell’accontentabile che fine farebbero? Che senso avrebbero avuto se porteranno solo del male? Dobbiamo stare bene, vogliamo stare bene e come possiamo farlo se viviamo in un mondo che non sta bene? Questa Terra si può ancora salvare, in un modo o nell’altro, giusto? Spengo la televisione, che era inutile tenerla accesa, e con stanchezza sollevo il mio peso dal divano, trascinandomi in cucina dove appoggio nel lavello la ciotola che prima del mio passaggio conteneva tanta frutta. Faccio un altro sorriso, in direzione del piatto vuoto, quando il rumore della porta che si apre mi fa sobbalzare un po’.
Sono una persona che in parecchie circostanze ha detto di no al cibo, non per paura che facesse male, non perché non mi accontentassi della fortuna che ho, semplicemente dicevo di “no” e il mio stomaco, a causa delle mie opposizioni, si è un po’ ristretto oggi. Ma quando mangio mi sento bene. Sono felice. E mi piace farlo. Mi piace quello che provo mentre mangio, mi piace mangiare, anche qualcosa di semplice, qualcosa fatta al momento, la trovo buona, perché mi scalda all’interno. E ciò che per me è nutrimento, è mondo. Mi piace il mondo, mi piace ciò che ha da offrire, mi piace ciò che ha da dare, mi piace lui e mi piace la vita. La sua vita che ha permesso la mia, che ha permesso ogni singola esistenza presente su questo pianeta. Vorrei poter scaldare il mondo, come lui, ha sempre scaldato me.
Il mio psicologo mi aveva detto “Mangiare è vita. Una persona che non vuole mangiare, di conseguenza rifiuta la vita.” Ha senso. Ha logica. Ci credo. Ma se un giorno dovesse proprio la vita rifiutarsi? Se un giorno proprio questo mondo senza forze dovesse dire “no”? Tutti gli sforzi fatti per non accontentarsi dell’accontentabile che fine farebbero? Che senso avrebbero avuto se porteranno solo del male? Dobbiamo stare bene, vogliamo stare bene e come possiamo farlo se viviamo in un mondo che non sta bene? Questa Terra si può ancora salvare, in un modo o nell’altro, giusto? Spengo la televisione, che era inutile tenerla accesa, e con stanchezza sollevo il mio peso dal divano, trascinandomi in cucina dove appoggio nel lavello la ciotola che prima del mio passaggio conteneva tanta frutta. Faccio un altro sorriso, in direzione del piatto vuoto, quando il rumore della porta che si apre mi fa sobbalzare un po’.
<< Mamma? >> dico, guardando la persona che mi si pone davanti, con borse della spesa piena di ogni genere di alimenti. << Mi aiuti? >> mi chiede lei, appoggiano quei pesi sul tavolo. Io, senza dire niente, le vado vicino e afferro con le mani tutto ciò che vedo. Pasta, riso, carne, affettato, formaggio, insalata, frutta, sushi… << Sushi? >> domando, tenendo in mano la confezione. << A te piace, no? >> mi risponde, laddove continuava a sistemare le diverse cose che aveva appena comprato. Ed è così. A me piace il sushi. << Grazie mamma. >> le dico, mettendolo nel frigo. È costoso e so che per lei non sempre è facile comprarmelo, per questo la ringrazio, mentre non mi dice niente, troppo presa a continuare a svuotare le borse. << Mamma? >> << Dimmi. >> << La macedonia che hai fatto… la faresti ancora? >> << Macedonia? Non la vuoi quasi mai la macedonia. >> alza gli occhi verso di me, fermandosi per un istante, giusto uno solo. << È buona. Più di quanto mi ricordassi. >>. E dopo averla aiutata, mi diressi in camera mia, accesi il computer e iniziai a scrivere. Come sempre. Scrivevo della mia giornata. Scrivevo di me. E scrivevo del mondo. Perché è grazie al mondo se tutto ciò ha un gusto. È grazie al mondo se io posso averne uno.
Eleonora Tarchini
Si ringrazia l'associazione culturale L/HUB per l'apprezzamento e per la bella iniziativa proposta.
Vorrei fare i miei più sinceri complimenti a tua nipote, mi ha colpito veramente molto il suo testo e trovo che abbia un modo di scrivere davvero unico.
RispondiEliminaDille da parte mia che ha un ottimo potenziale e che sarebbe bello poter leggere un suo libro in futuro☺
chiunque tu sia, ti ringrazio tanto del tuo apprezzamento, glielo dirò senz'altro, d'altro canto è una cosa che le dicono spesso. :)
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